
A Borodianka, i residenti degli edifici bombardati vivono in “insediamenti modulari” temporanei. È così che, mentre combattono il freddo, cercano un nuovo lo scopo nella vita
Sono circa 2,4 milioni gli ucraini che hanno perso casa a causa dell’invasione russa. E si tratta di una cifra approssimativa e incompleta poiché le ostilità sono ancora in corso. Nella sola regione di Kiev, più di 4.500 edifici privati e a più piani sono stati danneggiati. Una delle soluzioni di alloggio temporanee è rappresentata dagli “insediamenti modulari”. Si tratta di container in metallo e plastica che possono essere rapidamente posizionati ovunque. Per i residenti delle regioni di Luhansk e Donetsk, tali insediamenti sono stati costruiti dal 2014. Ora esistono anche nelle regioni di Zaporizhzhia, Kyiv, Lviv, Chernivtsi e Chernihiv.

Per i residenti di tali insediamenti, le gelate e gli attacchi missilistici rappresentano una nuova sfida. La giornalista Yuliana Skibitska e il fotografo Dmytro Vaga hanno parlato con i residenti dell’insediamento modulare nella cittadina di Borodianka, vicino a Kiev. La maggior parte di costoro hanno perso la casa dopo che, a marzo, gli aerei russi hanno bombardato Borodianka. E ora stanno cercando un nuovo senso alle loro vite, mentre imparano a sopravvivere al freddo e alla mancanza di elettricità.
L’insediamento modulare di Borodianka si trova vicino al locale stadio cittadino, al quale si arriva passando per quella Strada Centrale che è stata la più colpita dai bombardamenti russi di marzo: sette condomini a più piani sono crollati con i loro residenti dentro. Le case, nere per il fuoco, sono squarciate: alcune sezioni sono crollate, altre sono state smontate dai soccorritori. Su uno dei muri distrutti c’è una graffito di Banksy con una ragazza in kimono che mette al tappeto un avversario adulto. Ma, se non sai che è lì, non lo vedresti mai dalla strada, cosa che non si può dire degli appartamenti ai piani di sopra.



Foto: Dmytro Vaha
In fila, ci sono dozzine di contenitori bianchi e identici. All’ingresso è appeso uno striscione sul quale si incontrano due mani, una giallo-blu e l’altra bianco-rossa: sopra c’è scritto “Aiuto polacco”. Il governo polacco ha intrapreso la costruzione di 11 “insediamenti modulari” in Ucraina. Quello di Borodianka è stato costruito a maggio. Al momento ci vivono 220 persone, dice Olha, la persona a capo dell’insediamento. E’ originaria di Kyiv, ma è qui che trascorre la maggior parte del suo tempo.

“Sono venuta a Borodianka [con altri volontari] ad aprile”, dice Olha. “Abbiamo aiutato a ripulire dai detriti. E poi ho deciso di dare una mano qui, nell’insediamento. In verità, c’è molto lavoro: devi controllare tutto ciò che accade. Ricevere il cibo, distribuire gli aiuti umanitari, fare scorta di legna da ardere e acqua .”
Entriamo nel corridoio buio e freddo di uno dei moduli. L’insediamento risente dei blackout tanto quanto l’intera località di Borodianka. Quando l’elettricità si interrompe si attivano i generatori, ma il carburante costa caro, quindi il generatore funziona prima per una sezione e poi per un’altra. Scherzando, diciamo che l’insediamento gode di un suo proprio programma per le interruzioni di corrente.

Foto: Dmytro Vaha
Dentro è buio e l’odore è quello tipico di un dormitorio: un po’ quello del cibo, un po’ quello della gente, ma l’elemento dominante è quell’alone persistente che rimane di solito nell’aria dopo aver disinfettato l’ambiente con le radiazioni ultraviolette. In cucina, due donne puliscono il pavimento e lavano i piatti. Dato che non ci sono fornelli a gas, di solito qui non si cucina: i pranzi li portano i volontari della Croce Rossa. Alla luce della lanterna notiamo i disegni dei bambini sulle pareti, e accanto un opuscolo informativo con i numeri di telefono dei servizi per l’assistenza psicologica. Chiedo a Olha se i residenti dell’insediamento vanno d’accordo e se ci sono conflitti.



Foto: Dmytro Vaha
“Alle volte ci sono dei malintesi”, risponde. “Non può essere altrimenti, perché, in condizioni da dormitorio, persone molto diverse vivono abbastanza vicine. Nello specifico, queste persone hanno anche vissuto eventi molto difficili. Ma non direi che i litigi raggiungono un livello critico”.
La maggior parte dei residenti dell’insediamento sono anziani. Ma ci sono anche famiglie con bambini. Alcuni di loro hanno trovato lavoro, altri sono addirittura riusciti a lasciare l’insediamento dopo aver trovato un altro posto dove vivere. Ma di casi del genere ce ne sono ancora pochi.

Foto: Dmytro Vaha
“Cosa ne pensi, le persone saranno in grado di lasciare un insediamento dove viene fornito loro tutto ciò di cui hanno bisogno e farsi una propria vita partendo da zero?” chiedo a Olha. “Si tratta di alloggi temporanei, ma spesso il temporaneo diventa permanente. E sarà difficile per le persone riadattarsi a una vita in cui devono fare tutto da soli”.
“Sì, penso che un problema del genere sia possibile”, concorda con me. “E dobbiamo pensare a come risolverlo, per reintegrare gradualmente le persone nella società civile. Per molti è difficile perché hanno perso tutto. E ad essere onesti, non vedono la ragione di andare avanti in un qualche modo. Anche qui, nell’insediamento, c’è abbastanza lavoro. C’è bisogno di spaccare la legna da ardere, di portare l’acqua. Non è così facile trovare chi voglia farlo. Ecco perché sottolineiamo costantemente che c’è l’assistenza psicologica, e incoraggiamo le persone a rivolgersi agli specialisti. Molte persone non si rendono nemmeno conto di avere il disturbo da stress post-traumatico.”
Quando manca l’ elettricità e i generatori non funzionano, l’unico posto dove riscaldarsi e bere un tè è il “punto di riscaldamento”. Nella tenda grigia c’è una piccola stufa, la legna da ardere è accatastata in un angolo. Un uomo tarchiato e silenzioso di 45 anni getta legna da ardere nella stufetta e vi mette sopra un bollitore. Non si presenta, ma Olha lo chiama Serhii. Ci sediamo intorno alla stufa, come attorno a un falò, e discutiamo sul fatto di spengere le luci e sulla temperatura negli appartamenti di Kyiv.




Foto: Dmytro Vaha
“Penso che Olga sia un eroe!” dice una donna che è appena arrivata all’insediamento con degli aiuti umanitari. “Scambiare un tiepido appartamento con queste stanze fredde!”
“Wow, il riscaldamento l’hai sempre avuto acceso?” chiedo a Olha.
“Sì” -ride lei- “Sono fortunata, il mio appartamento è caldo. E ho anche tre gatti, quindi li uso come scaldamano. Ma per me venire qui e tornare indietro tutto il tempo e scomodo, è più facile se ci passo la notte.”
Olha mi chiede che impressione mi ha fatto Borodianka. Rispondo onestamente che, rispetto a Bucha e Irpin, Borodianka sembra più deprimente. In particolare, a causa delle case bombardate sulla strada principale. Discutiamo sul fatto se saranno restaurate o demolite.

“C’è poco da restaurare”, scuote la testa la donna che è arrivata con gli aiuti. “Crolleranno come un castello di carte”.
“Sì, perché i russi ci hanno lanciato delle bombe multi-tonnellata”, concordo io. “Ecco perché non c’è stata alcuna possibilità di fuga.”
“Un muro mi è caduto addosso”, dice improvvisamente Serhii che per tutto questo tempo si era limitato a mettere la legna nella stufa tacendo. “Mi ha colpito duramente, ma sono sopravvissuto. Ma mia moglie e i nostri figli sono morti. Erano nell’epicentro [dell’esplosione], quindi non sono stati neanche trovati i corpi. Non è rimasto proprio niente”.
Serhii mi si avvicina e mi mostra una foto che ha scattato a marzo, subito dopo il bombardamento. Al piano superiore si vedono i resti di un muro che un tempo era quello del suo appartamento. Il corpo di una donna giace nel cortile. Vedo che le mani di Serhii tremano anche se, grazie alla stufa, nella tenda fa molto caldo.

Foto: Dmytro Vaha

Foto: Dmytro Vaha
Un altro uomo entra nella tenda, dimostra sulla settantina. Anche la casa di Petro, come quella di Serhii, si trovava sulla Strada Centrale. Ma la famiglia di Petro è sopravvissuta.
“I russi hanno guidato lungo la [strada] tangenziale”, ricorda Petro menzionando l’inizio dell’occupazione. “Era il 27 febbraio. Tre veicoli corazzati si sono lanciati sulla superstrada, ma c’era qualcosa che non gli è piaciuto e sono tornati indietro. Gli altri sono andati verso l’insediamento di Makariv. Si sono fermati e hanno aperto il fuoco sul ponte ferroviario. Penso ancora: perché l’hanno fatto? E c’erano due soldati ucraini in agguato, hanno notato i russi e hanno iniziato a colpirli. Hanno tagliato i fili [dell’alta tensione] che sono caduti dritto sugli occupanti. Il 28 [febbraio] le colonne erano ancora in movimento ma un bel po’ del loro equipaggiamento era stato distrutto”.

Foto: Dmytro Vaha
“Il convoglio coi loro veicoli si è mosso per due ore e mezza”, aggiunge Serhii.
“E il 1 marzo è stata bombardata la prima casa”, continua Petro. “Nel seminterrato sono morte quattro persone, in quel seminterrato c’ero anch’io. Il 2 marzo erano già arrivati gli aerei che hanno bombardato tutte le case della Strada Centrale”.
Immerso nei ricordi, Petro tace per un po’. Poi dice:
“C’erano molte attrezzature russe bruciate, una linea lunga circa un chilometro e mezzo. Vettori blindati, un lanciamissili Grad. Quella volta, il nostro esercito gli ha fatto un bel danno.”
“Tornando indietro [dopo il fallito sfondamento verso Kyiv, il 28 febbraio] erano già molto arrabbiati”, aggiunge Serhii.
Nina, 84 anni, viveva in Via Semashko, altra strada dove le case sono state bombardate dagli aerei russi. La incontriamo nella sua stanza dell’insediamento. Ci vive sola, ma sua figlia viene spesso e resta per la notte. La stanza è molto piccola e ha il soffitto basso. A una parete ci sono due letti e nell’angolo opposto un armadio. Per due persone muoversi comodamente nello spazio rimanente è difficile. Nina ci offre una sedia mentre lei siede sul suo deambulatore. Da quando è iniziata l’occupazione è caduta e le si è rotta una gamba.

Foto: Dmytro Vaha
“Bombardavano e basta e sono scappata perché la bomba non mi colpisse. Sono caduta, mi sono rotta una gamba e ora sto camminando con questo “, Nina accenna al suo deambulatore. “Allora l’ospedale non funzionava, l’ho avvolta [la gamba] con una benda e niente più. Mi dà fastidio, ma non ne parlo con nessuno”.
La casa dove Nina è caduta aveva un fienile giusto fuori. Ha strisciato fin lì e ci è rimasta per circa un mese. Il vicino è venuto, le ha dato da mangiare e dell’acqua. Solo in seguito la figlia di Nina è riuscita a venire a prenderla. Così la donna ha trascorso l’intera occupazione a Borodianka.
Nella stanza fa molto freddo, non mi tolgo il giubbotto e Nina cambia le leggere pantofole con cui è andata alla funzione in chiesa per dei caldi stivali di feltro.
“Vediamo quanti gradi ci sono qui”, dice Nina e tocca il termometro con la mano. Nina riesce a malapena a vedere, ma ricorda molto bene dove sono le cose. Ci chiede di dirle quale numero segna. Ci sono 12 gradi. Chiedo a Nina come si sente a vivere in un “insediamento modulare”.



“Meravigliosamente,” risponde Nina in tutta sincerità. “Qui mi piace molto. Già riconosco la gente, dalla sua silhouette. Arriva una donna, e so che è Masha, perché è vestita di rosso. Sveta invece porta un fazzoletto. Qui conosco già tutti.”
Nina accenna alle due bottiglie d’acqua accanto al letto. “Una mia trovata… come si dice, uno stratagemma? Uno stratagemma che ho: riempio le bottiglie con l’acqua bollente e viene un bel calduccio!”

Prima di salutarci, Nina intona per noi un canto natalizio:
“Angeli con la gente, angeli con la gente. Festeggiamo con gioia.
Cristo è nato, incarnato nella Vergine
Gli angeli cantano, accogliendo il Cristo”.